L’impiego del fluoro quale agente cariostatico o carioinibente ha radici lontane nel tempo. Fu Dean, nel 1942, a mettere in evidenza come l’assunzione di fluoro in fase pre-eruttiva desse origine a uno smalto con una struttura più resistente agli acidi rispetto allo smalto che ne era privo.
Da allora gli studi che si sono occupati dell’argomento sono stati innumerevoli: molti volti a dimostrare l’indubbia efficacia dell’elemento nella prevenzione della carie, ma molti altri mirati a ridimensionare tali benefici o addirittura a sconsigliarne l’uso per evitare il rischio di fluorosi, un’anomalia di sviluppo dello smalto conseguente a un sovradosaggio cronico dell’elemento.
L’impiego del fluoro da parte del personale sanitario non è infatti sempre accompagnato da un’adeguata conoscenza delle sue caratteristiche e, soprattutto, delle sue modalità d’azione sia a livello dentale sia a livello generale. È la mancanza di tali informazioni che ha portato — e porta tutt’oggi — a infinite divergenze di opinione.
Il fluoro aiuta nella prevenzione della carie dentaria perché, quando viene assunto nella fase di formazione della struttura minerale dello smalto, rimpiazza gli ioni idrossido con ioni fluoro, formando, al posto dell’idrossiapatite — normale costituente dello smalto dei denti — la fluoroapatite, sostanza più resistente all’attacco acido demineralizzante della placca batterica.
I fluoruri giunti al tessuto per via sistemica possono depositarsi negli strati più profondi dello smalto in via di formazione, dando origine alla costituzione di cristalli di fluoroapatite.